Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Dopo un viaggio durato lunghissime ore d’aereo, eccomi qui, in Brasile. Non sono riuscita a trattenere l’emozione e gli occhi sono diventati umidi, per un attimo.
Mai e poi mai avrei pensato di poter, un giorno, attraversare l’oceano Atlantico, percorrere più di cinquemila chilometri e arrivare così lontano da casa mia, così al di là di ogni confine che non credevo di poter spostare. Io un po’ più in là dei miei limiti. Io, piccola tramatzese, in un mondo enorme.
Perché il Brasile è così, immenso. Immense distese di verde, di Mata Atlantica. Immense le distanze da percorrere, immense le giornate che sembrano interminabili, immensi i tramonti sul mare. O, almeno, il Brasile che ho visto io.
Stato di Bahia. Nordest del Brasile. Povertà, scarsità di igiene. Caldo. Molto caldo. Ma anche tanta voglia di vivere, tanti sorrisi, tanta bella gente e una bellissima accoglienza.
Ben diversi sono i rumori che si sentono, a qualsiasi ora del giorno e della notte.
Musica.
Musica a volume altissimo senti provenire dalle macchine, dalle case, dai supermercati, dai baretti e chioschetti sparsi per la città. E dalle chiese.
E ancora differenti e particolari sono gli odori. Potrei stare qui a cercare di descriverli ma mai riuscirei a trasmettere la sensazione che ho provato in quei giorni. Mai potrei nemmeno avvicinarmi a ciò che ho sentito. Profumi, odori e puzze. A volte misti in una vaporosa aria calda che ti avvolge e non ti lascia più.
E tanti, tantissimi colori. Nelle strade, nei murales, nelle case e nelle innumerevoli barracas e chiese. E anche nella pelle. Sfumature di generazioni passate che rivivono nella quotidianità di una cultura veramente multietnica.
E il multiculturalismo permea ogni aspetto della vita bahiana. Dal cibo, con le pietanze a base di riso e fagioli, come ogni pasto povero comanda, alla religione e al culto del candomblé, fino alla musica, al ritmo di vita, alle favole che si tramandano, allo spirito di libertà.
Io, piccola tramatzese, abituata alla vita in Europa, alle città europee,veloci, ordinate, pulite e pressoché silenziose (ebbene sì, dopo essere stata in Brasile, ho cambiato la mia idea sulla rumorosità delle nostre città), mi sono ritrovata immersa in città caldissime, afose, polverose, rumorosissime e lente.
Si, lente. Sarà il caldo, non lo so, ma la vita qui è più lenta. I ritmi non sono asfissianti come in Europa e le persone vivono i loro impegni giornalieri in modo più rilassato, senza troppa fretta né ansia.
Tutto così diverso, tutto così lontano. Anche se, a tratti, avevo come l’impressione di essere a casa. Specialmente nel periodo di permanenza all’isoletta di Bom Jesus. Piccola isoletta dal paesaggio esotico, è con i suoi abitanti che ho sentito familiarità. Persone umili, dagli occhi grandi come il loro cuore, in cerca di un riscatto o di una via d’uscita dalla povertà della loro vita e allo stesso tempo orgogliosi della loro patria, della loro isola.
E proprio nell’isoletta della baia dei Santi ho potuto confrontarmi con la lingua portoghese in prima persona. Il rapporto con la lingua, in un Paese straniero, è, per me, sempre fondamentale . E’ come una prova di sopravvivenza, per me. Ed è andata alla grande, forse anche grazie ai miei studi universitari.
Durante la somministrazione di questionari in giro per l’isola ho potuto intervistare i suoi abitanti, per la maggior parte pescatori, e ho ascoltato le loro voci, le loro idee di cambiamento e ho visto nei loro occhi la felicità con la quale rispondevano alla domanda: Vôcé està contente de morar nesta comunidade? (Sei contento di vivere in questa comunità?) nonostante sia una comunità povera,nonostante il loro paesino necessiti di un impianto fognario e di un medico fisso (il medico va e viene dalla terraferma, e resta solo 2 giorni a settimana - quando resta.)
Da un’isola all’altra. Isola verso l’isola. Saranno la mia origine e il legame con la mia terra che mi hanno permesso di sentire il loro attaccamento e di condividerlo, in un parallelo tra Sardegna e Brasile che non avrei mai pensato di vivere.
E, in fondo, è stata questa, per me, l’esperienza brasiliana. Il ritrovare, nelle piccole azioni quotidiane, qualcosa che è comune a tutti i popoli, qualcosa che ognuno di noi cerca di definire ma che in pochi riescono a vivere appieno. E non so bene se chiamarla felicità o libertà o cosa. Parole troppo usate e usate male.
In fondo, il viaggio è dentro noi stessi. E solo li troveremo le mete e le destinazioni. E solo dentro noi costruiremo il nostro mondo e il nostro modo di essere che si rifletterà nel nostro piccolo quotidiano.
E io ho avuto la fortuna di aggiungere al mio piccolo anche un po’ di Brasile.
Raìz
From Kwala – Parte Prima
Chi parte per l’Africa viene avvertito fino alla nausea che questo è un continente pericoloso, corrotto e violento. Fatti tutti gli opportuni distinguo, soprattutto sulla corruzione che pare davvero epidemica ed endemica, bisogna dire che prima di tutto l’Africa è per davvero povera, economicamente in ginocchio, sanitariamente alla preistoria! Il resto viene dopo e, sia come sia, in Africa si sorride, si sta calmi di fronte ai problemi, si ascoltano gli interlocutori e si è sempre comunque gentili.
Dopo tre settimane che mi trovo in Tanzania mi sono reso conto che qui essere povero non scandalizza o stupisce.
Allo stesso tempo, essere povero non necessariamente significa sconforto o tristezza. Anzi, tra le strade di Kwala, il piccolo villaggio rurale nel quale insegno Inglese, anche nell'insopportabile scandalo della miseria si è dignitosi, fieri e in un certo senso anche più umani.
In Africa, la vita ha valore, e vivere è più importante di ogni altra cosa. Nonostante ciò, la vita in Africa è dura, dura per tutti, ma specialmente per le donne, soprattutto giovani donne e bambine. Camminando tra le strade di Kwala o tra le tantissime capanne Masai disseminate per la savana, le donne, con l'eleganza e la dignità che le contraddistingue, e che non perdono mai, anche se quello che portano in testa è un misero straccio colorato, assumono il valore di icone.
Donne che lavorano, che portano l'acqua, che lavorano la terra. Donne che cucinano e vendono "maandazi" o "chapati" per strada.
Ma anche donne riprese in un gesto arcaico come quello di rompere il guscio di un noce di cocco con un sasso che è sempre quello da migliaia di anni. E, ovviamente, donne con i bambini, mentre allattano o li coccolano, in quell'immagine universale e comune a tutti i popoli.
Le mie prime impressioni "tanzaniane" si sono, perciò, soffermate sulla gente. Anche perché, in fin dei conti la gente è l'anima di ogni paese o nazione. Sono le persone, quelle fatte di carne e ossa che fanno e vivono la storia, qualunque essa sia, bella o brutta, felice o triste, ricca o povera. Sono le figure femminili quelle che più mi hanno colpito. La forza e dignità che le caratterizza, ma anche l’austerità e il mistero che le avvolge è ciò che più di ogni altra cosa mi ha fatto pensare.
Ci sarebbe tanto da dire e discutere sulla condizione della donna in Tanzania, e in Africa in generale, ma non sto qua a soffermarmi su questioni di "gender studies" o "feminism". Il mio era solo un piccolo appunto sui quei soggetti sociali che fino ad ora, mi hanno colpito maggiormente. In Africa si sa il ruolo della donna è importantissimo. E forse è proprio per questo, che per ora, la mia attenzione si è soffermata sulle figure femminili, le più delicate, le più forti, ma anche le più difficili da decifrare tra le “mie immagini d’Africa”.
Paolo Abis