La mietitura del grano...
Agli inizi dell’estate, il frumento era pronto per la mietitura. Giorni di sole canicolare avevano portato a maturazione il grano che, alla fine, riposto nei solai e difeso opportunamente da “is arresias” doveva servire a nutrire la famiglia per tutto l’anno e spesso serviva per barattare altra merce, in quanto i soldi veri erano pochissimi. Alcuni “Messadoris” di quel periodo dell’anno emigravano, i primi emigranti per lavoro che io ricordi. Era tempo della mietitura in certe regioni, come nel campidano, si richiedeva manodopera nei campi. Non esistevano ancora le “trebbie” e le “mietitrebbie” . Tempo di mietitura dunque. Ai primi allori “a mangianeddu chizzi” i mietitori messi al braccio i “manascibis” specie di manicotti perché “s’arista” del grano non entrasse nelle maniche della camicia, erano già in pieno lavoro. Il primo consisteva nel legare con i “liongius” i vari manipoli del giorno avanti, perché col sole alto il grano sarebbe diventato “arridu” e il legare sarebbe stato molto più difficoltoso. Anche le spighe con la calura, cadono più facilmente, facendo la gioia delle spigolatrici che, dietro i mietitori vanno cercando e mettendo in una sacca legata sul davanti le spighe disperse. Sul mezzogiorno, i mietitori e i suoi aiutanti, con le spigolatrici, si mettevano sotto un improvvisato ombreggio, vicino al carro, o cercavano un bell’ albero ombroso e là prendevano un buon boccone e riposavano alquanto prima della seconda tappa del pomeriggio. Quasi sempre il mangiare era quel pane e formaggio.. chi era fortunato aveva il saporitissimo “casu marzu”. Il pane casereccio veniva accompagnato anche da cipolle, uova e qualche pezzo di salsiccia. Spesso il pane era integrale, “sa lada grussa” divisa nel mezzo e biscottata al forno, i cui pezzi prima di essere consumati, venivano ammorbiditi con l’acqua un momentino e poi messi al sole a intiepidire. Il pasto frugale veniva innaffiato con buon vino, per quanto possibile al fresco. Finita la mietitura, inizia la grande festa nelle aie, ne “ is axrobas”. I covoni vengono portati in luogo aperto dove il vento può spirare meglio, e lì sono sistemati per terra, in un grande cerchio. A questo punto entrano in azione i buoi e i cavalli, i quali per ore e ore, sotto il sole accecante, pestano e trepestano sminuzzando il cerchio dei covoni. Alla fine tutti i grani usciranno dalle spighe e il frumento sarà pronto per essere seminato. Raccoglie tutto con vari attrezzi, “is trebutzus, is iscovas, e is pabias” e lo ammucchia per formare “sa biga” un grande prisma trapezoidale formato di grano e paglia. La speranza adesso è che arrivi presto il maestrale, un favorevole “bentu estu po podi bentuai”, solo così il grano potrà essere completamente ripulito dalla pula. Sulla biga del buon e tanto prezioso grano il contadino segna con “sa pabia” una bella croce, ad affermare come il padre che sta nei cieli provvede agli uccelli e gigli dei campi, così non lascia mancare il nutrimento ai suoi figli che, col sudore della fronte si sforzavano a procurarselo. Come atto finale, il grano veniva, “incungiau” portato a casa per essere conservato oppure ammassato nel monte granitico, “su monti” per essere venduto. Chiudeva le fatiche agricole dell’estate “s’incung’e e sa palla” che con alcune manciate “de fa mobia” doveva servire al nutrimento delle bestie durante l’anno. Fatiche su fatiche e povertà serena.... ma, facendo il paragone con la vita impazzita di oggi, possiamo ben dire beati quei tempi di pace. Oggi sappiamo che quelle erano stagioni felici che la gioventù di adesso purtroppo non ha conosciuto nè gustato e neanche può immaginare.
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